Ya más o menos formado el conjunto de libros que he elegido para que me acompañen en verano, por motivaciones muy diversas, me acuerdo de pronto, a última hora, de la poesía de Ungaretti. Quizá la tengo presente porque Carmelita lo citó en su presentación de mi libro, unido a la noche, y por decir que los dos lo amamos -amamos su poesía. Me preguntó si me parecía bien que lo indicara, y le dije que sí. Porque es verdad. El amor por su poesía es algo que también nos une. Y me acuerdo y pienso que debe hacer muchos años que no la leo, y que sería bueno renovar este amor, darse el gusto de leerla en verano. Pienso que será un gozo seguro. Y así es. Porque, tras leer un libro de cuentos que dejé ya en la playa por pensarlo lectura de interés, los ‘Contes de capçalera’ de Josep Palau i Fabre, leo la poesía de Ungaretti. Y es, sí, un absoluto gozo, como así lo esperaba. El libro está fechado el 2 de enero de 2003. Debí leerlo entonces, esos años, muchas o bastantes veces. Esos años Carmelita vivía en Barcelona y en unas notas que escribió sobre mi poesía lo nombraba, a Ungaretti y su sentimiento del tiempo. Lo nombra en la presentación de mi libro el otro día, ligado a la noche. Tras sus poemas leo sus notas, de altísimo interés. Es extraordinario cómo habla de la noche, nos la explica. Lo que para él es, cómo la siente, y da razón por ello de su presencia en su poesía. Así nos dice: “Ci sono due elementi della mia prima infanzia, anzi, gli elementi sono tre, e presto verranno a sorprendermi in senso d’ispirazione poetica. Inanzi tutto, la notte, la notte e il suo traffico: voci di guardiani nocturni: si rincontravano, venivano, s’allontanavano: Uahed!..., ritornavano Uahed!..., ogni quarto d’ora, rifatto il giro intorno al mio orecchio infantile. Era il primo percepire dell’infinito, d’un infinito cerchio, como già gli antichi Egiziani usavano rappresentarlo nel mordersi la coda di un serpente”. También nos dice: “Ho già parlato dei guardiani notturni e della notte, di quella perenne ossessione che andrà sempre più incorporandosi, animandola, nella mia poesia. Di quel loro richiamarsi, di quei gridi loro, dell’abbaiare dei cani che li accompagnava. C’erano difatti i cani, prima l’avevo scordato. Nella città d’oggi è scomparso quell’abbaiare notturno, ma in quella del tempo mio innumeri cani erravano e urlavano. Lungo tutta la notte, gridi esorbitanti, gridi brutali che ferivano il timpano, da lungi gridi. Era quel coro, quel coro terribile di cani, che correva a congiungersi in giro alla città ai richiami dei guardiani: Uahed, uahed, uahed, e la melopea vi rasentava, por subito l’uahed vi raggiungeva la distanza che non si misurava più. Un anello di gridi s’allentava in torno a voi fino a perderne nozione e poi si stringeva come se vi volesse stritolare. “Roccia di gridi”, ho detto, mi pare, una volta, in un mio canto”.
Y es extraordinario cómo habla en estas notas también de la aurora: “Ecco una nascita d’aurora come la si può contemplare tutti i giorni, se uno ha voglia di alzarsi presto. Ha un valore simbolico, ma prima di un valore simbolico c’è l’aspetto físico, sensibile dell’apparizione. Il mondo rinasce e si sporge entro trasparenze, torna a mostrarsi come dall’interno di frastagli cristallini. Perché l’ora è credula? Perché è un’ora ingenua, un’ora che sorprende e che è sorpresa, sorpresa di vedersi rinata”.
Recuerdo que al presentar en Roma Poesía en Roma Carmelita acudió también a Ungaretti y habló de su luz -y que esta luz era también mi luz, la luz de Petrarca y la de Ungaretti-, y lo situó como uno de los polos en que se da y que representa a la poesía italiana -el del lirismo, frente al narrativo de Montale. Y aquí la aurora, sentida y pensada también de extraordinario modo.
Así nos dice de ella Ungaretti. “‘Riestasi misura delle mete’: le mete che cosa sono? Punti prefissi da raggiungere. Prima le mete non erano scorte perché si era presi dalla vita dei sensi e ora le mete stanno riapparendo, si riestendono perché prevale una percezione dell’inteletto, e fa dell’aurora un simbolo. Via via che la luce cresce, le distanze aumentano, e la misura che ci porta verso le mete che di continuo s’allontanano, si fa maggiore. Le mete non saranno mai raggiunte, ma noi sentiamo che ci sono, che forse le potremmo raggiungere; e queste mete noi incominciamo a percepirle con il crescere della luce che estende lo spazio, sebbene si tratti di uno spazio ancora confuso, dove gli alberi sono ancora arborescenze, spettri, e dove forse anche il resto è ancora larvale.// “Estenuandosi in iridi echi”. Io sono stato in guerra, dove agonia e morte erano continue, e ho assistito per tanti giorni, e finirono coll’essere anni, a diverse nascite di giorno, a diverse aurore, e il nascere del giorno è nel suo silenzio pieno di voci, di voci che sembrano echi di voci, che non sembrano voci emesse direttamente, ma voci che ci giungono come tramiti, fioche dice Dante.// La conoscenza che il poeta ha della realtà ideale è una conoscenza avuta soltanto attraverso ad echi, non ne ha una conoscenza diretta, perché noi non nonosciamo la realtà se non per tramiti; noi conosciamo la realtà materiale, fino ad un certo punto, ma non conosciamo la vera realtà se non attraverso ad echi, come sensibilmente ne offre simbolo il nascere del giorno. “Estenuandosi in iridi echi”: vale a dire: mentre si consumavano gli echi in iridiscenze. Quindi passo per analogia da un’immagine auditiva a un’immagine visiva. Chi ha assistito all’ora dell’alba sa che quella è un’ora piena d’iridiscenze, come nell’arcobaleno, nell’iride, in cui i colori si confondono l’uno con l’altro in un colore madreperlaceo, perlaceo. È un’ora che non è chiara, l’aurora non è mai chiara. Anche nel primo Canto dell’Inferno, quando Dante contempla il nascere del giorno, l’ora non è mai chiara: si passa da uno stato di buio a uno stato meno aggrovigliato, ma le cose sono ancora in uno stato di confusione. (…) “”Roseo facendo il buio…”. L’aurora prende qui il suo originario colore, fa la realtà rosea, trasmuta il buio, il nulla, in rosea promessa. Tenete sempre presente davanti agli occhi quello che io ho tenuto sempre presente davanti ai miei occhi: la visione delle vicende naturali come naturalmente vanno presentandosi agli occhi. La natura oggi è modificata, va modificandosi a tal punto da parte dell’uomo che provabilmente tali spettacoli l’uomo non avrà più agio di contemplarli a modo nostro fra un certo numero d’anni: si possono però oggi ancora contemplare comodamente, si può andare in un posto solitario a guardare in ogni minima sua fase il nascere del sole, e si può anche vedere morire il giorno e la notte in quell’ora che nel Tramonto della Luna il Leopardi scopre”. También nos dice: “Vi ho detto che la Canzone è una poesia, como tutte le mie altre, del resto, che ha sempre como immagine un’immagine che allude alla natura. Qui l’immagine centrale, chiamata da capo a fondo a rifflettere il pensiero del poeta, è l’aurora.// Da principio abbiamo il sentimento del nulla che può esserci dato da quel momento che precede l’aurora nel quale, essendo tramontata la luna, e le stelle non essendo più presenti, si ha il censo del buio assoluto. E, dopo questo, abbiamo il nascere dell’aurora, con descrizioni molto minute -le prime colorazioni del cielo, e poi gli echi, perché quel momento del giorno è pieno di voci che sembrano ripetere voci lontanissime. Chi abbia assistito a tali natural spettacoli, lo sa. Abbiamo già indicato che “la prima immagine” di cui si parla nella strofra che incomincia col verso “Preda dell’impalpabile propagine”, è la “prima” aurora. Solamente, è una “prima immagine” che non ci può più essere visibile nella sua pureza, nella sua integrità, perché di fronte a quella “prima immagine” c’è l’infinita “propagine di muri” che il tempo mette davanti allá “prima immagine” per rendercela sempre più lontana; ogni minuto che passa, una nuova velatura rende la prima immagine meno decifrabile all’uomo. (…) Così, la prima immagine continua ad essistere perché c’è sempre l’aurora. L’aurora non è scomparsa dall’universo. Solamente la “prima immagine” non ci giunge in un certo senso se non come l’eco, se non come la reminiscenza di un’idea perfetta. C’è dunque un’aurora perfetta, e c’è un’aurora imperfetta che è quella che conosciamo. Noi tendiamo però con tutte le nostre forze a conoscere “la prima immagine” nella sua perfezione, malgrado l’ostacolo dei “muri” che sono gli eredi eterni dei minuti, che si susseguono, che formano una propagine, e che ci escludono sempre più dalla “prima immagine”. Sucede infatti che per illuminazione, per lampi, si riesca a rompere questa infinità di muri, e che in un qualche senso si abbia non soltanto l’eco dell’idea, ma si conosca l’idea stessa”. Ante el espesor, la calidad, la profundidad de pensamiento que hay en estas notas pienso y me digo si está bien, es bueno o exigible que un poeta pueda dar razones de este tipo, las tenga y además las pueda dar. Por supuesto lo es, me respondo. Pero me lo pregunto ante el carácter extraordinario de este pensamiento, de estas razones. Detrás de los símbolos en que se mueve una poesía debe haber una profundidad así, quizá no siempre decible. Extraordinario el modo en que nos lo dice Ungaretti. Así que la noche y la aurora -la luz y el poder creador de la luz- en sus notas además de en sus poemas. En sus notas la importancia de la naturaleza, cómo las imágenes, cómo éstas así pensadas ha de ir ligadas a ella: “Ogni volta che provo una profunda emozione, la provo perché uno spettacolo della natura mi ha fatto conoscere, insieme a una novità oggettiva, la mia novità. La natura, il paesaggio, l’ambiente che mi circonda, hanno sempre una parte fondamentale nella mia poesia”. Nos ha dicho antes la impresión que le causaron las montañas al llegar a Italia desde su Alessandria de Egipto: “Quando venni per la prima volta in Italia, la scoperta più sorprendente, più commovente, fu quella delle montagne. Andammo con Jahier e con un giovane scrittore francese, Louis Chadourne, all’Abetone. Il paessaggio precario che mi era famigliare, il deserto, e poi il mare, il mare che da ragazzo scoprivo come una figliazione del deserto, quel mare che era la solitudine e il nulla come il deserto, quel paessaggio instabile, mutevole d’attimo in attimo: scomparso, e, al suo posto, la montagna: la montagna che sta ferma contro il tempo, che resiste al tempo, che sfida il tempo. Fu quello un fortissimo stupore, forse il più forte che ricordi”. Recuerdo la belleza con que Josep Pla nos cuenta la impresión que le causó ver la catedral de Gerona, cuando fue niño para ir al colegio desde su Palafrugell natal, en un viaje en tartana que no sé si duró casi un día. Nos dice -creo recordar- que fue la impresión estética más importante de su vida, porque le hizo saber y comprender lo que era obra del hombre, el arte que podía construir el hombre, ya que hasta entonces sólo conocía el arte de la naturaleza, los paisajes de su entorno. Lo he recordado, porque Ungaretti nos refiere un impacto de semejante calibre para él, pero dentro de la misma naturaleza.
Antes y además de las notas, únicos y casi absolutos en sí mismos, están los poemas, claro está, y a su fulgor he acudido en primer lugar. Pero encuentro estas notas finales y me hacen pensar, ante su densidad y la sensación de verdad que dan, si una poesía debe o puede tener unas raíces tan profundas, y, como digo, pienso que sí, aunque quizá nos las pueda el poeta decir, como aquí nos las dice Ungaretti. Y, antes de los poemas, las ‘Ragioni d’una poesia’, que he leído antes de éstos. Veo que esos años en que leí la poesía de Ungaretti fui muy parco al subrayar lo que en ella leía. Quiero decir que hay muchísimas cosas valiosas y que te interesan, y justo subrayé o marqué al margen lo más esencial. Así Ungaretti nos habla de manera detenida y maravillosa del misterio y la poesía, y yo sólo subrayé una frase y un párrafo que son, sí, especialmente conclusivos. Ésta es la frase (“Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo”), y éste es el párrafo: “Mi fu facile ritornare in me, riprendendo a commentare il Leopardi. Il sentimento dell’Allegria, che l'atto poetico è, qualunque sia il prezzo, atto di liberazione, che solo nella libertà è poesia, era ritornato vivo e chiaro in me, con la conferma in me che non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà nozione di Dio”. Pero podríamos ser más generosos, y, en atención a su interés, acoger más reflexiones de Ungaretti a este respecto. Traeré aquí, ahora, algunas palabras más del poeta: “A distanza di più d’un secolo, il problema torna in Leopardi, ed è il gran problema del momento. Ma a Leopardi non si pone negli stessi termini che s’era posto ai Romantici tedeschi: non è apello al caos, non è nemmeno ansia d’una forma che abbia da scaturire dal caos. Leopardi si rende tuttavia conto, ed è il solo Italiano a renderse conto con chiarezza sino all’avvento della poesia contemporanea, che una frattura era avvenuta nella mente dell’uomo. L’accettazione della condizione umana nei suoi limiti di tempo e di spazio, vale a dire nei suoi limiti materiali e logici, ormai è rittenuta come formante antinomia con l’aspirazione innata dell’uomo alla libertà e alla poesia. (…) Ma là dove l’ironia del poeta giunge sino al suo punto di humour nero estremo, è nel canto L’Infinito. L’infinito non può essere noto all’uomo, essere finito, che a mezzo di oggetti finiti: cose la cui vista ci è esclusa non foss’altro che da una semplice siepe, possono diventare “interminati spazi”; símilmente l’eterno, il tempo abolito, non potrà concepirsi che a seguito d’uno stormire di foglie in corso di smarrirsi dentro uno spazio, divenuto per causa di quel chiasso smarrito, senza più fine: chiasso che darà vita all’immagine dell nostro pensiero fermatosi ad inseguire, a perdita di vista, gli innumeri secoli morti precedenti il nostro, ecc….// Il vocabolo suggeriva fortunato anche altre vedute all’occhio penetrante del Leopardi. Il vocabolo, per il significato proprio non può evocare se non oggetti condizionati dai limiti, non può, appunto, evocare oggetti se non nei loro stessi confini indicativi. È tutto? S’accorge a quel punto che quel medesimo vocabolo possiede una seconda prerogativa quando è resso lirico, dilatandosi in quel momento per intervento d’ispirazione al di là d’ogni concetto di limite: in quel momento diviene sopratutto vocabolo indefinito. Misterioso è l’aggetivo che s’addice meglio al vocabolo poesia, e che sarebbe stato conveniente impiegare; ma il Leopardi si lusingava che, dissimulando la sua costretta confessione del sacro sotto un vocabolo tanto razionale quanto poteva esserlo il vocabolo infinito, le dava lo stridore d’un pizzico di malizia volteriana. Non faceva che mettere a nudo la pietà del suo core. (…) Certo, la vera poesia si presenta innanzi tutto a noi nella sua segreteza. È sempre acccaduto così. Più giungiamo a trasferire la nostra emozione e la novità delle nostre visioni nei vocaboli, e più i vocaboli giungono a velarsi d’una musica che sarà la prima rivelazione della loro profondità poetica oltre ogni limite di significato”.
La poesía y el misterio, su carácter sagrado, dicho de un modo muy personal y muy profundo y muy verdadero. La poesía es también la búsqueda de un decir, entre lo que encontramos ya está dicho. Nos habla de ello también con mucho acierto Ungaretti: “Consideravo -dopo il ’19, ma l’Allegria s’era formata nei cinque anni precedenti- consideravo quasi d’essere sacrilego -consideravo che il mistero abbia umanamente inizio da razionalità intesa come termine necessario, mecanico, d’opposizione, ed ero così forse meno lontano dal cartesianismo di Pascal che non lo fosse Jacques Rivière. In tali vedute volevo riconoscermi opposto anche a un altro modo d’intendere la realtà, ossia a quello secondo cui essa esigerebbe si ammetta, per essere sentita nella sua suprema vitalità, nel suo mistero, che essa non possa in alcun modo tollerare misura, ma che sia inanzi chiusa assolutamente alla ragione, avendo la verità sede di là dalla misura. Non la realtà, ma il mistero non è mesurabile. Sulle prime, tali mie convizioni procedevano parallele ad altre, di altri che vi erano avviati da ricerche neoclassiche nella loro tecnica espressiva, quali il clima letterario italiano e europeo del momento suggeriva, quali soprattutto sembraba naturale dovessero conseguire all’esserci noi allora riaccostati ai maggiori poeti dell’Ottocento: al Foscolo, al Leopardi.// Era certo un renderci conto da ignoranti della posizione del Leopardi, e subito dovetti accorgerme, e se n’era bene accorta a suo tempo l’Allegria. Non fu che smarrimento brevissimo, del resto, come dicevamo, storicamente inevitabile date alcune difficoltà di mestiere che allora era fatale si presentassero al poeta e che egli non poteva non dedicarsi a sciogliere. Tutto sommato fu una grave prova, e il Sentimento, forse perché risolutivo nei suoi risultati, ne uscì quasi illeso.// M’accorsi subito di quanto fosse pericoloso quel prefiggersi di rispettare canoni che dal Vaugelas e dal Cartesio e, peggio che mai, dal Voltaire in poi, mettevano la poesia francese a rischio d’isterilirsi nell’accademico -e invece la rinnovavano e la salvavano sempre; ma per miracolo.// Passai a altre ricerche; ma mi rimase impresso che in arte, sì, contavano la pazienzia, la tradizione -e contaba in realtà, solo il miracolo. C’è chi dà più peso alla natura, e per indole c’è chi invece preferisce avvalorare l’intelletto, e in fondo non era ciò che premeva. Meno ancora premeva rilevare che la prima era una corrente che nei secoli sembrava volgersi a Oriente, mentre pareva l’altra usa piuttosto a eleggersi a punto cardinale, l’Ovest. Ciò che premeva e che imparavo, è che in ogni caso non ci potesse mai essere poesia senza miracolo”. En las Poesie disperse encuentro el poema titulado ‘Poesia’, y me llaman la atención sobre todo sus finales versos: “I giorni e le notti/ suonano/ in questi miei nervi/ di arpa// vivo di questa gioia/ malata di universo/ e soffro/ di non saperla/ accendere/ nelle mie/ parole”. Esta poesía, la poesía de Ungaretti, es guía sobre todo de sí misma, y tan propia es esta voz que me hace también pensar que aunque pueda considerársele un extremo o representación de la poesía -como ha hecho Carmelita, y así es-, su salvaje personalidad, salvaje que vale también por pura e inocente, hace que no pueda tener, me parece, discípulos y continuadores. Es una voz muy sola en la cumbre que logra, en la personalidad de su decir, en su fulgor. “D’altri diluvi una colomba ascolto”: este maravilloso verso que es un poema entero sí lo había subrayado. Es, sí, maravilloso. Y de otros diluvios nos llega esta voz, la paloma que es esta voz y los ha atravesado y desde ellos nos llega. Cuánta memoria hay en esta voz, como cuánta luz y cuánta noche, y cuánta verdad. Es también extraordinario el modo en que la experiencia de una vida -la Vita d’un uomo- puede transmutarse en poesía, darse en una voz, que es sobre todo guía de sí misma, y también, a la vez, por serlo en este modo, puede ser luz y compañía para todos. Fulgor. Todo esto me hace pensar la poesía de Ungaretti, y más. El reencuentro con poemas inesperados y también con versos o poemas inolvidables. M’illumino/ d’immenso, sí, y así se siente es cierto ante versos o poemas suyos. ‘Cerco un paese inocente’, acaba de conocida manera un poema, y este país es también su voz, su poesía, que sólo con inocencia además de con arrojo y con valor se podía alcanzar. Buscar y alcanzar, lograr, dar en la voz. Es difícil decir el asombro y el gozo del fulgor y la densidad de la poesía que nos puede en la lectura dar la de Ungaretti, pero como en ella esto se da en tan alto modo creo que hace que ella pueda también ser ejemplo de cómo esto puede así ser. Aquí, para acabar estas apresuradas notas que no pretenden hacerle justicia ni menos comentarlo, el poema final de Sentimento del tempo y que da título al libro, con esa sensación de cierre que es también algo que se abre y empieza, un final que empieza, con una densidad y belleza y hondura difíciles de alcanzar y que nos asombra encontrar y en lo más íntimo celebramos, y sentimos que esto es la poesía, lo que sentimos al de verdad encontrarla. Aquí así el poema ‘Sentimento del tempo’: “E per la luce giusta,/ Cadendo solo un’ombra viola/ Sopra il giogo meno alto,/ La lontananza aperta alla misura,/ Ogni mio palpito, come usa il cuore,/ Ma ora l’ascolto,/ T’affretta, tempo, a pormi sulle labbra/ Le tue labbra ultime.”
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